Noi italiani, nel 2021, abbiamo speso nel gioco d’azzardo 111,17 miliardi di euro. Gioco d’azzardo legale, che sa il cielo cosa viene speso in scommesse fuorilegge. Centodiciassette miliardi sono circa il 6% del PIL italiano, una cifra spaventosa: è più o meno quanto spende il nostro paese nella sanità pubblica, è molto di più di quello che spendiamo in istruzione ed è oltre un terzo di quello che spendiamo per mangiare. O, per dare un parametro in tema con la tragedia di questi giorni, è 14 volte i soldi che erano stati stanziati per il progetto Italia Sicura (soldi che non sono stati spesi).

Ma non volevo dire che spendiamo i soldi nelle cose sbagliate. Anche, ma la questione di fondo è un’altra. È che giocare d’azzardo significa prendere i propri soldi e buttarli dalla finestra (metafora solo parzialmente adeguata: non si distribuiscono soldi ai passanti, ma si arricchisce qualche multinazionale).

Perché facciamo questa stupidaggine?

Per vari motivi tra cui credo prevalga questo: abbiamo un pessimo – davvero pessimo – rapporto con il concetto di probabilità. Sentiamo dell’ex fidanzata di un amico di nostra cugina che una volta ha vinto 562 euro e quindi decidiamo di spendere 2.000 euro l’anno in scommesse, schedine, gratta e vinci (i duemila euro vengono fuori, più o meno, dividendo i 111 miliardi per 58 milioni di italiani).

Una sottile differenza

Il collegamento con la crisi climatica sta qui, sta nel nostro profondo e grave analfabetismo probabilistico. Il cambiamento climatico non produce molti eventi completamente inediti. Genera continui record in termini di temperature e precipitazioni, questo sì, ma il suo impatto principale non sta in questo. Sta nel fatto che le temperature alte, le precipitazioni intense saranno via via più probabili.

Ed è qui che arriva la fregatura: più probabile non vuol dire certo. È più probabile che io, al gioco d’azzardo, perda tanti soldi, piuttosto che ne guadagni anche pochi. Più probabile, non certo. È più probabile che ci siano alluvioni dieci volte più che in passato. Più probabile, non certo. Differenza sottile, che provoca qualche stordimento nelle nostre fragili menti.

Attempati storditi

E così capita, anche in questi giorni terribili, di sentire qualche stordito, di solito della mia età (56) o più dire cose del tipo:

«L’alluvione che ha colpito la Romagna e le Marche è terribile… Però è già successo: quand’ero ragazzo io…»

e vai a ricordare il Polesine degli anni Cinquanta e Sessanta, Reggio Calabria del 1953, Firenze del 1966, il Piemonte orientale del 1994. E lo stordito ha ragione: in passato ci sono già state alluvioni devastanti come e più di quelle di questi giorni.

La differenza è che se lo stordito in questione, nei suoi primi sessanta – o quel che è – anni di vita di grandi alluvioni ne ha viste una decina, chi oggi di anni ne ha venti o meno, ne vedrà molte, molte di più. O meglio, è probabile, che ne vedrà molte, molte di più.

Dal condizionale all’indicativo

La probabilità è un concetto balordo: prima ci dà indicazioni – che non sono certe – sul futuro e poi viene a chiedere il conto, concreto e salato. Prima usa il condizionale potrebbe e poi vira su l’indicativo passato prossimo, su è o non è accaduto.  Nel caso delle alluvioni, ha vinto la versione senza il ‘non’: basta dare una scrollata alla pagina di Wikipedia Alluvioni e inondazioni in Italia. La sezione 2000-2023, da sola, è circa mezza voce, che pure va indietro sino al sedicesimo secolo.

Potrei vincere cento euro. Ho perso mille euro. Potrebbe essere che l’Italia paghi carissima la crisi climatica. In quale forma useremo l’indicativo passato prossimo, dipende da noi: dalla nostra volontà di difendere il territorio, dalla nostra volontà di uscire dall’epoca delle fonti fossili.