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Dobbiamo, tutte e tutti, ridurre la nostra carbon footprint. Già, ma cos’è la carbon footprint?

Qualsiasi cosa che venga prodotta, qualsiasi nostra azione genera gas serra, in un modo o nell’altro. È così da sempre e fino alla rivoluzione industriale è andata benissimo. Perché i gas serra che noi animali – umani e non – producevamo erano in equilibrio con quelli assorbiti dalle piante e dai mari. E così, in atmosfera c’era più o meno sempre la stessa quantità di gas serra.

Poi, quando verso la metà dell’800 abbiamo iniziato a pompare come dannati gas serra nell’atmosfera – CO2 ma non solo – l’equilibrio è andato a farsi benedire. Solo che per capire bene cos’è che emette più gas serra e quindi, dove andare a intervenire, bisogna essere in grado di valutare le emissioni di ogni prodotto, di ogni processo, di ogni azione. Ed è una cosa che si fa con la carbon footprint.

Alcuni prodotti, sull’etichetta o sulla confezione, riportano la quantità di CO2 emessa nel produrli. Prodotti dei generi più diversi: mi è capitato di vederlo su un sacchetto di cemento o su una camicia. Ed è una valutazione che cerca di tener conto di tutto.

Ad esempio: in questo momento indosso una maglietta di cotone. Quanta CO2 è stata emessa per produrre questo cotone? E per raccoglierlo e trasportarlo dove è stato lavorato? E per trasformarlo in maglietta? E per portare questa maglietta dove io l’ho comprata? Facendo una stima di tutti questi passaggi, si arriva una stima che – nel caso specifico – è grosso modo di una decina di kg di CO2.

Certo, però, io posso valutare anche quanto gas serra rilascio, con il mio stile di vita. Ci sono diversi siti dove si può andare a farlo. Si ricevono una serie di domande, tipo: cosa mangi e quante volte? Quanto usi l’auto? Che fornitore di energia elettrica hai? Fai voli aerei? Compri libri e riviste? Cose di questo genere e poi alla fine viene fuori un numero, che dice quanta CO2 emetti in un anno, e di solito è qualcosa dell’ordine delle tonnellate, per noi che viviamo nella parte più sviluppata, industrialmente del pianeta.

Interessante, no? Sì, ma c’è una fregatura: e cioè che talvolta la Carbon Footprint è stata utilizzata per spostare l’attenzione dai grandi produttori di gas serra, come le compagnie petrolifere, alla singola persona. Tra chi più ha promosso l’uso della carbon footprint, infatti, c’è la British Petroleum. Ma diversi critici hanno detto che era un sistema per dire al singolo cittadino: ‘guarda che anche tu sei responsabile del cambiamento climatico. Quindi, prima di tutto, pensa alle cose che fai tu e che non vanno bene’.

Anche se, com’è comprensibile, non c’è paragone tra la responsabilità di una persona comune e una enorme multinazionale del petrolio.

Altro problema con la carbon footprint: alle volte non racconta la storia sino in fondo. Lo fa notare Fridays for Future Italia che a marzo ha diffuso una grafica in cui dice: ci sono due persone che vanno al lavoro. La prima usa molto spesso l’aereo. La seconda va sempre sempre a piedi. Chi ha maggior carbon footprint? Beh, facile, la prima.

Ma complichiamo la situazione: la prima persona è una climatologa che gira il mondo in classe economica, dormendo sugli aerei per risparmiare il costo dell’albergo per far conoscere i suoi studi e quello che si deve fare per frenare la crisi climatica. La seconda persona è un politico che vive in un attico a cento metri dal parlamento e tutti i giorni s’impegna per bloccare leggi che puntano a limitare le emissioni di gas serra.

Messa così, chi ha maggior impatto sul clima?

Detto questo, la carbon footprint può essere comunque molto utile, per le aziende che intendono combattere la crisi climatica. E lo si scopre parlando di carbon management.

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